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"La Carta Vincente"
di Georgette Heyer


copertina
traduzione di A.L.Zazo
© 1973/79 - Mondadori
© 2005 - Sperling & Kupfer

Nella Londra del primo ottocento, dove fatui bellimbusti e affascinanti avventuriere si affrontano in una coloritissima fiera della vanità, dove intrighi si intrecciano e si snodano nei viali dei parchi affollati di carrozze o illuminati a giorno dai fuochi artificiali, dove tutto è permesso purché si rispettino le regole del gioco, che accade se il visconte di Mablethorpe, troppo giovane e troppo innamorato, decide di infrangere quelle regole e di sposare la "divina Deborah", la cui principale attività è quella di tener banco al faraone o ad altri giochi d'azzardo nella rispettabile casa della zia trasformata in assai poco rispettabile casa da gioco?

Che accade se la casa da gioco è fallimentare, la zia cronicamente insolvente e il matrimonio appare il solo scudo protettore contro la prigione per debiti o le proposte strettamente disonorevoli di un aristocratico libertino? Se a impedire il matrimonio entra in gioco il cugino di Mablethorpe, l'uomo più ricco di Londra, Max Ravenscar, inguaribilmente scapolo e impenetrabile a ogni senso di cavalleria? Se dai viali silenziosi di un parco scaturisce all'improvviso una giovane ninfa, candida, adorabile e sventurata (Ravenscar la definirebbe semplicemente sciocca) la cui vicenda infiamma nel cuore del giovane visconte, penetrabilissimo a ogni senso di cavalleria, i più nobili sentimenti? Se la divina Deborah unisce a una misconosciuta quanto inattaccabile virtù un'indomabile fierezza, una personalissima visione della legalità, e un carattere di fuoco che trova il suo eguale soltanto nella durezza di Ravenscar? Che accade infine se a mescolare le carte di questa irresistibile partita d'azzardo, di questo gioco a incastro dove compare sempre un elemento di troppo (il fante, l'asso, il re?), è Georgette Heyer?

Ebbene, i lettori potranno constatarlo, accade di tutto: agguati al crepuscolo, rapimenti, fughe, giochi d'azzardo a cui è legata la sorte di un uomo, incontri non regolamentari di pugilato, e un gioioso farsi e disfarsi di coppie che dimostra come la costanza dei giovani innamorati sia un sentimento tra i più incostanti e come non esista scapolo inguaribile che non trovi il suo "medico".

Accade infine che tutti gli elementi di un autentico melodramma, mescolati con un'intelligenza ironica e un inesauribile gusto del narrare, si compongano in una commedia d'intrigo e di costume, in una girandola di personaggi e di imprevedibili colpi di scena che, ruotando at torno al duello tra i due vulcanici e impareggiabili protagonisti, conduce il lettore senza un solo attimo di stanchezza alla scoperta della carta vincente, in un finale in cui l'autrice si concede il piacere di capovolgere le carte in mano a Thackeray e di mostrarci una fiera della vanità dove a vincere non è il vizio con la maschera della virtù, ma la virtù mascherata (soltanto un poco) da vizio.

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Introduzione di Anna Luisa Zazo
alla seconda edizione italiana de "La Carta Vincente"
(© 1979 - Mondadori)


Nel gennaio 1811 il parlamento inglese votava il Regency Bill, nominando Giorgio principe di Galles, primogenito di Giorgio III, il re da tempo malato, Reggente del regno. Definire il peso storico della decisione esula certo dall'ambito di questo breve discorso, ma affermare che ebbe fondamentale importanza nella storia del costume appare lecito. Poiché il Regency Bill diede un nome, Reggenza, a quel singolare microcosmo che l'alta società inglese nei primi decenni del XIX secolo si era andata costruendo. E gli diede un principe che, libero dalla dipendenza, sia pure formale, dal sovrano regnante, di quel mondo poté liberamente farsi la figura centrale, il gran sacerdote dei frivoli riti celebrati nei club londinesi, negli ippodromi, nei parchi, o nelle i due residenze reali: il Padiglione di Brighton e Carlton House, a Londra.

Un mondo singolare, si è detto, rarefatto, chiuso in se stesso, impermeabile al fluire del tempo, non ignaro degli eventi che accadevano nel resto del mondo, e forse neppure indifferente, ma da quegli eventi puntigliosamente e deliberatamente isolato.

Non erano eventi da poco. Se per noi, ora, può apparire ancora più agevole collocarli nella loro giusta posizione storica, a quanti vissero quegli anni non dovette sfuggire il senso di mutamenti incombenti, tali da rendere impossibile il ritorno all'antico assetto politico e sociale che le grandi potenze del Congresso di Vienna vollero tenacemente ristabilire, ignorando che la rivoluzione francese aveva avuto luogo, e che le sue conseguenze non si potevano a lungo cancellare con un congresso o una serie di trattati.

In Inghilterra erano gli anni delle lunghe guerre napoleoniche e del consolidarsi della rivoluzione industriale con le sue brutali conseguenze di inumana miseria per gran parte della popolazione.

Ma nel mondo esclusivo della Reggenza si ignorava che queste cose accadessero.

In quale misura? Difficile a dirsi: gli esclusivi della Reggenza erano maestri nel gioco dell'essere e del parere, e si difendevano dalla realtà con la barriera più solida poiché più inafferrabile che esista: la forma, le cerimonie, la squisita esaltazione del nulla. Si può penetrare e infrangere qualcosa. Si può penetrare e infrangere il nulla?

Mai forse, come nella Reggenza, si giunse a una tale, deliberata, perfetta sublimazione della forma, dell'apparenza, del superfluo, del frivolo; del nulla appunto. La sostanza non era bon ton: l'apparenza divenne la sola sostanza accettabile. E questa religione del nulla eretto a norma trovò la sua perfetta espressione nel dandy, creatura indefinibile per eccellenza poiché si caratterizza, seppure si caratterizza, per quello che non è o non ha.

Non svolge alcuna attività, utile o inutile, meritoria o dannosa; non è bello; non è ricco, poiché, a differenza di molti esclusivi dei secoli passati o del nostro secolo, gli esclusivi della Reggenza non vedevano nel danaro un passaporto universale; se poi è queste cose, non grazie a quelle è un dandy. Veste con eleganza, ma con sobria e inavvertibile eleganza; ha spirito, ma il suo spirito si rivolge a reprimere negli altri impulsi eccessivi di vitalità, deplorevoli nostalgie di una sostanza dietro l'apparenza.

Il dandy non è, ma del non essere fa un'arte.

Il dandy è il dandy.

E', in una parola, George Bryan, "Beau", Brummell, l'uomo che meglio di ogni altro espresse la sublimazione del nulla. L'uomo che possedeva in sommo grado la principale qualità della Reggenza, il ton, il buon gusto, la raffinatezza, l'apparenza. E che tuttavia, se dobbiamo credere a Lady Hester Stanhope, infaticabile viaggiatrice e donna di indubbia intelligenza, disse un giorno: "Se il mondo è tanto sciocco da ammirare le mie assurdità, voi e io non siamo vittime di questo inganno, ma a che vale?".

Vi era dunque negli esclusivi la consapevolezza che quella esistenza era soltanto un gioco, che il loro era un mondo vuoto, avulso dalla sofferta realtà contemporanea, che doveva crollare; e per non voler cedere all'impatto della storia, fissavano il gioco in assurde e rigorosissime convenzioni e si avvolgevano nella sottile ma impenetrabile ragnatela dell'esclusivismo?

Forse tale consapevolezza esisteva in alcuni, e furono spesso quelli che respinsero il mondo degli esclusivi o ne vennero respinti dopo esserne stati idolatrati: Byron, tra molti, e lo stesso Brummell.

Ma, si chiederanno forse (e a buon diritto) i lettori, non sarebbe più consono alle regole, prima di arrischiare giudizi sulla sostanza di quel mondo (il che può apparire in se stesso aberrante dopo quanto si è detto), illustrarne l'apparenza, le norme, i luoghi dove ne venivano celebrati i riti, le abitudini e le mode, le singolari eccentricità (non le "passioni": le passioni erano appannaggio dei non esclusivi)?

Lo sarebbe, senza dubbio alcuno, se già non vi fosse chi, meglio di ogni altro, può guidare i lettori negli aspetti più esclusivi del mondo degli esclusivi: Georgette Heyer, la più celebre scrittrice romantica inglese di questi anni, ma anche la maggiore esperta delle mode e dei costumi e del linguaggio e dei rituali della Reggenza.

Nata a Wimbledon il 16 agosto 1902 e morta a Londra nel 1uglio 1974, Georgette Heyer negava di essere una donna romantica (e perché mai una scrittrice romantica dovrebbe essere una donna romantica? Si chiede forse a un autore di romanzi gialli di essere un assassino?) e non amava che dei suoi romanzi venissero apprezzati l'incanto della trama e la felice invenzione dei personaggi. Quel che lei amava nei suoi libri (sebbene si debba procedere per congetture poiché forse nessuno scrittore ha protetto con tanto accanimento e tanto successo la sua vita privata e la sua privata personalità) era la ricostruzione d'ambiente; e in questo era davvero inimitabile, e possedeva una documentazione - libri, antiche carte geografiche, dizionari, memorie, appunti meticolosamente schedati - degna di uno storico. Se le accadeva di rispondere alle domande dei lettori rispondeva a quelle "intelligenti e ben formulate" che riguardassero la storia o il costume.

Nei suoi romanzi la realtà storica, rievocata con una puntigliosa precisione che sa cogliere non soltanto gli aspetti più facilmente ricostruibili ma il più autentico "spirito del tempo", si intreccia sempre all'invenzione, con una libertà e una pienezza fantastica che rendono impossibile il formarsi della benché minima linea di rottura. Ai personaggi immaginari si uniscono personaggi storici, e se questi parlano spesso con le parole che pronunciarono nella realtà, quelli sono non di rado modellati su figure storiche.

Leggere i romanzi di Georgette Heyer è dunque entrare nel microcosmo della Reggenza, entrare da protagonisti in un mondo nel quale essere ammessi era difficile, ma venirne esclusi Io era assai meno, poiché: "Chiunque sfida l'opinione del mondo presto o tardi ne avverte le conseguenze". Entrarvi penetrandovi a fondo, conoscendone non soltanto le eccentricità, le regole, le mode più appariscenti, ma vivendone l'impalpabile e impenetrabile realtà.

Accadeva - forse ai lettori dei "romanzi sulla buona società" pubblicati nel secolo scorso da Henry Colburn (il primo, Tremaine di Plumer Ward, è del 1825), opere destinate in larga misura a chi desiderava sentirsi parte di un mondo di cui non aveva potuto far parte, di conoscere dall'esterno le attività degli esclusivi, le mode, i passatempi.

Non accade soltanto questo ai lettori di Georgette Heyer, che di quel mondo entrano a far parte dall'interno, conservando tuttavia i vantaggi dello spettatore che può, quando Io voglia, ritrarsi nell'ombra della platea a ritrovare il contatto con la realtà.

Nella sapiente, vivissima ricostruzione storica e ambientale, ricostruzione che nulla ha di polveroso, ma restituisce alle epoche passate tutto l'immediato fascino della vita, va dunque cercato il contributo più originale di Georgette Heyer alla letteratura romantica inglese, né il suo interesse per la ricostruzione storica si ferma alla Reggenza o agli ultimi anni del settecento: l'opera a cui stava lavorando al momento della morte risale al quindicesimo secolo, una trilogia sul duca di Bedford, fratello minore di re Enrico V, e in un romanzo aveva rievocato l'Inghilterra di Guglielmo il Conquistatore.

Ma sarebbe singolarmente riduttivo non ricordare il senso della trama e il gusto inimitabile del narrare e la sottile autoironia esercitata con rara intelligenza su se stessa e sui suoi romanzi, così che le trame e i personaggi paiono muoversi su due piani: il gusto puro e semplice della narrazione, la gioia di lasciarsi prendere al laccio dalle proprie invenzioni; e il gioco sottile e controllatissimo degli specchi. Una leggera, quasi inavvertibile, sottolineatura sopra il rigo e i personaggi, senza nulla perdere della loro verità, si mutano nel riflesso di se stessi, del mondo attorno a loro, riflesso che è a un tempo satira e affettuoso omaggio.

E insieme Georgette Heyer possiede due qualità assai rare in chi scriva romanzi "d'evasione" e non comuni neppure in chi scriva romanzi "seri": un disincantato ma autentico rispetto dei propri personaggi e dei propri lettori; e il difficile piacere di giocare a carte scoperte.

Autrice, oltre che di romances, di romanzi gialli, Georgette Heyer rispetta quella che è stata definita una regola fondamentale di un buon giallo: dare ai lettori tutti gli elementi che ha il detective. All'inizio della vicenda distribuisce le carte, pone i termini del problema, come già fece Carroll (con gli scacchi, tuttavia, più ancora che con le carte) nei racconti di Alice, e lo risolve, una mossa dopo l'altra, a carte scoperte.

Valida per tutti i romanzi di Georgette Heyer, l'espressione non è forse singolarmente adatta a questa Carta Vincente, in cui la proprietaria di una elegante e esclusiva casa da gioco (e si trattava in realtà di raffinate bische) e l'uomo più ricco di Londra si affrontano in una partita senza esclusione di colpi per giungere a un finale che potrebbe essere prevedibile se il gioco non fosse condotto con tanta intelligenza, tanta inesauribile fantasia da rendere imprevedibile forse non la tappa finale del viaggio, ma il viaggio stesso?

E è, questa, una caratteristica dei narratori di razza.

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